Chi siamo?
Io sono Luca,
Loukàs sul passaporto greco. Fin da quando ero piccolo mio padre mi aveva spiegato come fosse scritto e come si pronunciava il mio nome in greco. Doppio passaporto, doppia cittadinanza, doppia chiamata alle armi per assolvere agli obblighi del servizio di leva obbligatorio, una in Italia ed una in Grecia.
Per fortuna che adempiere ad una delle due escludeva automaticamente gli obblighi dell’altra.
Due nonni che scendevano dalla montagna Pistoiese e due nonni che erano nati a Smirne una ed a Tripoli l’altro ed in perché i loro padri erano dovuti fuggire da Costantinopoli.
Insomma alla fine mio padre (greco con un nome greco Hector anche se divenuto famoso per via dell’eroe Troiano Ettore) e mia madre (italiana con un nome di origine ebraica Anna) si incontrarono a Tripoli e li si innamorarono l’uno dell’altra e nascemmo mio fratello ed io. Due anni prima di mio fratello Paolo era nato Marco ma aveva avrebbe avuto bisogno di tecnologie ospedaliere di cui allora la Libia non disponeva e non ce l’aveva fatta. Finalmente nel ’59 mamma e papà poterono festeggiare il loro primo figlio Paolo. Immagino quanto era stato desiderato ed atteso. Quante speranze e paure devono aver accompagnato i giorni di mia madre dopo la perdita di Marco. Tre anni dopo Paolo nacqui io e papà cominciava a spostare i suoi interessi dalla Libia all’Italia credo seguendo le scelte del mio nonno materno Adriano che era rimpatriato dopo trent’anni di duro lavoro e grandi delusioni rispetto alle aspettative che aveva avuto quando era partito.
Così cinque anni dopo di me arrivò Alessia. La principessa la chiamava zio Spiro. La tanto desiderata femminuccia. Io ho delle foto in braccio a mia madre che mi abbraccia con tenerezza e non posso dire che non mi abbia amato ma sono certo di non essermi del tutto sbagliato nell’aver sentito meno attenzione su di me rispetto alla comprensibile esplosione di amore che suscita il primo figlio ed all’inevitabile gioia dell’arrivo della femmina a completare il quadro familiare.
Questo è il dadovevengo.
Mafalda
ha tutta un’altra storia. Lei nasce nel 1987. Io avevo allora già venticinque anni. Mafalda non ha mai scelto un granché, si è sempre limitata a seguire chi la sceglieva.
Dirai tu “dunque ha fatto così anche con te”.
“Non lo so”.
Non ne sono sicuro. E sai perché? Perché un mio amico mi parlò di lei nel giugno del 2019 ma io ero troppo preso da Lara. Tutto il mio essere era preso dalla sua malattia. Lara è stata la mia compagna per cinque anni burrascosi perché nessuno di noi due era un tipo facile. Ma soprattutto è stata la mia musa ispiratrice. La mia manager per ogni mio sviluppo artistico e la mia fan numero uno. Mi apprezzava e spingeva ad osare a lasciare che un sogno prendesse la forma di possibilità. È stato così che ho visto aprirsi porte inaspettate e realizzarsi uno ad uno dei piccoli sogni che mi hanno aiutato a realizzare questo. Il mio sogno più grande. Lo immaginavo fin da bambino. In un altro modo. Coi mezzi che un bambino poteva immaginare ma era proprio questo. Beh, stavo dicendo che Emanuele mi parlò di Mafalda nel mese di giugno del 2019. Aveva saputo di lei in occasione del festeggiamento del suo compleanno da Lorena. Il solo fatto che io abbia saputo di Mafalda e mi fossi subito dimenticato di lei senza dare alcun seguito a questa possibilità la dice lunga sul mio coinvolgimento verso Lara. Ad agosto poi, il 22, era un sabato mattina, alle cinque e quarantatrè Lara ha aperto per un’ultima volta gli occhi senza chiuderli mai più. Lei mi ha lasciato solo nella sua casa, con le sue cose, i suoi odori, il suo accappatoio, la sua libreria, la macchina del pilates, gli abiti di flamenco, le sue medicine... Mi ha voluto donare tutto, ogni cosa che aveva, anche i suoi risparmi per aiutarmi a ricominciare… a “sistemarmi” diceva lei. Da quel ventidue di agosto è finita l’estate. Sono passati un intero autunno, l’inverno, la primavera e stava per iniziare un’altra estate. Il tredici giugno, a casa di Lorena, esattamente un anno dopo che Emanuele mi aveva parlato di lei, finalmente ho conosciuto Mafalda. Era di nuovo il compleanno di Emanuele. Lei era li, in disparte. Molto trasandata. In un angolo del prato. Sembrava brutta. Sembrava qualcosa che non può tornare a sorridere e neppure a vivere. Era sommersa da abiti fuori moda, una veccia batteria coi cerchi arrugginiti. Una chitarra senza corde. Immobile. Silenziosa. La guardai. La immaginai oltre i limiti di quello stato d’abbandono e decisi di provare. In questo senso oggi mi sento di dire che lei in qualche modo mi ha scelto. Perché dal 13 giugno del 2019 al 13 giugno del 2020 non si è concessa a nessuno come se avesse voluto aspettare proprio me. Mafalda non aveva nulla. Quando andai a prenderla non era in grado di muoversi e ci vollero una trentina di giorni insieme per restituirle un po’ di dignità. La lavai. Riparai le sue ferite con attenzione e premura. Cominciai a comprarle le piccole cose di cui aveva visibilmente bisogno e quell’immagine del nostro primo incontro cominciò a sembrare solo un brutto ricordo.
Finalmente, il ventinove di agosto, grazie all’aiuto di Franco, Mafalda Sbuffò per una decina di secondi, avvolse sé stessa e noi che le stavamo intorno in una nuvola nera e tossicchiando partì. Il motore Fiat ducato 2500 diesel tornò alla vita ed io fui felice di non essermi sbagliato a darle fiducia.
Come i cuccioli nati dalla mia Kira, Mafalda ed io, cominciammo a Muovere i primi passi in un piccolissimo spazio intorno alla cuccia. Si trattava di cerchi il cui raggio andava crescendo in maniera proporzionale alla fiducia e confidenza che si andava consolidando tra noi di settimana in settimana.
La revisione. Il posizionamento sul lungomare. Il primo viaggetto per andare a caricare acqua e benzina in autostrada e finalmente la prima puntata a Viterbo. Ahi ahi, col caldo di quei giorni settembrini le ventole di Mafalda si rifiutavano di partire e darle un po’ di sollievo soprattutto nelle salite.
Al nostro ritorno facemmo una nuova visitina a Franco che sistemo le ventole e fece il cambio di olio e filtri. Tutto ottobre passò davanti al mare. Già si cominciavano a vedere i primi stormi di uccelli che inseguivano il caldo. Si posavano un giorno, due e poi ripartivano. C’erano state una decina di giornate di vento molto forte ma a parte qualche sbattimento della porta se dimenticavo di fissarla ed un po’ di dondolio durante la notte non ci furono problemi. Arrivò il freddo che mi costrinse ad andare alla base a rifornirmi di coperte e qualche indumento più pesante. Ebbi anche in dono da mia cugina Francesca e da una gran donna (Margherita) due piumoni belli caldi coi quali sostituii le coperte. E d’improvviso una notte, verso le tre, fui svegliato da un ticchettare insistente sul tetto. Pensai che fosse grandine ma poi aprii la finestra e vidi che era pioggia. Il tetto d’alluminio amplificava il rumore delle gocce che lo colpivano. Fu il battesimo dell’acqua per Mafalda e per me insieme a lei. Avevo sigillato ogni sua giuntura e guarnizione con del silicone proprio in attesa di questo momento e pareva tenere bene. Per il freddo mi ero attrezzato utilizzando il filo della resistenza elettrica di una stufetta da buttare. Quello che diventa rosso quando l’accendiamo per capirci. L’avevo smontato e schiacciato fino ad ottenere una specie di cerchio di fili intrecciati ed avevo provato a metterlo sul fornello acceso. In otto minuti il termometro interno segnava una salita di temperatura di quattro gradi. Tutto questo perché la stufa in dotazione (a gas) non era stata ancora revisionata ma stando così le cose non ne avrei neppure avuto bisogno.
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