Fontana dei Cavalli Marini
Vedo il sole ogni mattina da anni, molti anni. . . a meno che non piova.
Vedo cani. Tanti cani legati ai padroni, a volte. . . a volte sciolti che, a guardarli, non capisco mai bene se comanda chi scappa o chi insegue.
Ci sono scoiattoli a volte.
Cavalli al passo con sopra dei gendarmi.
Turisti mi passano intorno a centinaia, ogni giorno.
Giovani alcuni, distratti dai troppi desideri che porta sempre nelle tasche la gioventù.
Vengono donne ad educare i piccoli figli alla bellezza.
Ci sono i selfie-isti che improvvisano sorrisi di carta da affiancarmi per gli occhi dei social.
Anziani, in coppia, per mano o, soli, a piccoli passi lenti.
Ci sono gli innamorati che mi guardano a lungo ed a lungo si baciano
proprio qui davanti a me.
Chi arriva a piedi, altri in bicicletta o in risciò, macchine elettriche o segway.
Gli intimisti non mi guardano.
seduti sulle panchine nel viale leggono ma sanno che io sono qui.
Ci vengono apposta.
Verso sera arriva finalmente il fresco e i runners.
Sudati. Respiri rumorosi. Abbigliamento molto tecnico.
Non si guardano intorno. . . soltanto corrono.
Poi c’è un tizio qui davanti.
Fermo tutto il giorno che suona la chitarra e canta.
Le note acute mi attraversano appuntite
ma la frequenza di alcune vibrazioni gravi mi solletica un po’.
Luca Mefalopulos
(27 agosto 2019)
Fontana dei cavalli marini
Realizzata tra il 1790 ed il 1791 da una pluralità di artisti che ne curarono parti diverse.
Voluta da Marcantonio IV Borghese (1730-1809). il quale, nel 1766 avviò un’ampia risistemazione della Villa.
La progettazione fu affidata a Cristoforo Unterperger e Vincenzo Pacetti ne curò la realizzazione.
Si racconta che l’ispirazione del tema dei cavalli marini provenisse da un cammeo antico che lo stesso Marcantonio Borghese avrebbe donato a Pacetti.
È curioso osservare che chi ha tutta la vita davanti corre sempre ed ha la sensazione che il tempo non gli basti mai e chi invece è quasi arrivato alla fine cammina lento e le sue giornate sono diventate lunghe… lunghe…
22 marzo 2020
A/R Andata e ritorno - (24 luglio 2012)
Se potessi tornare indietro. Per come sono oggi, potessi, passeggiando nel tempo, tornare indietro di trentun’ anni troverei un altro “me” con un sacco di capelli, grossi e neri. Troverei “me” diciottenne, a cavallo di un PX centoventicinque che gira per Atene, inquieto ed entusiasta con mille sogni nel cassetto. Voglia di studiare poca davvero. Del latino e dell’italiano non me ne fregava proprio niente. E mi vedrei lì, in camera, ad estasiarmi ascoltando “Anima latina” di Lucio Battisti, seguendolo con la chitarra, cercando di riprodurre in maniera perfetta i vari passaggi dei suoi brani. Mi vedrei chiuso nello sgabuzzino a suonare, ché lì il suono, sbattendo sui muri spogli, rimbalza e si arricchisce di un riverbero che gli dà profondità. Mi vedrei curvo sulla scrivania, a scrivere e disegnare in attesa di uscire ed incontrare Cecilia. Mi guarderei, senza essere visto, ma anche se “me” mi vedesse sarei certo di non essere riconosciuto. Il “me”, a diciotto anni, non avrebbe mai immaginato di diventare un cinquant’enne completamente calvo e con una bella pancia rotonda e gonfia. Ma io vorrei tornare da lui e, senza farmi riconoscere, senza aggressività, magari nelle spoglie di un compagno di viaggio incontrato per caso sul ponte affollato di una nave, in una delle tante traversate che faceva per andare dall’Italia alla Grecia, poter
scambiare due parole, magari di notte, mentre tutti quei mucchietti che ci circondano, dormono nei loro sacchi. E dopo aver suonato insieme la chitarra… parlargli come fosse il mio migliore amico. Gli parlerei di me, della mia infanzia e giovinezza, delle mie speranze, convinzioni, dei miei valori, delle mie paure di allora, dei fallimenti e delle cose che mi hanno insegnato e lui mi sentirebbe vicino. Sarebbe pronto ad ascoltarmi con stupore e forse un po’ d’ammirazione e mi aprirebbe la porta del suo cuore e della sua anima. Cercherei di fargli sentire quanto, a volte ci complichiamo le cose, arrivando perfino a rinunciare a ciò che abbiamo di più caro, convinti di punire chi ci sta intorno senza mettere in bilancio quello che stiamo perdendo di noi stessi. Gli direi che quando uno ha un sogno deve battersi per realizzarlo, e provare, e riprovare, con forza e convinzione, fino a che non ce la fa più, per non dover poi coltivare dei rimpianti. Gli direi di ricordarsi di non perdere la sua umiltà nei momenti di successo e di non perdere l’entusiasmo dopo la sconfitta. Gli consiglierei di non dare credito a chi dice troppe parole, a chi cerca di convincerlo di essere qualsiasi cosa sia -Chi è qualcosa. Veramente. Qualsiasi cosa sia. Non ha bisogno di convincerne gli altri a parole.- Gli direi di non credere nella logica della giustizia basata sul bene e sul male, ma non gli racconterei che prima o poi finirebbe in galera per aver creduto in quel tipo di giustizia e che gli sembrerebbe di impazzire, per l’incapacità di comprendere, se non lo facesse... Gli direi di non sentirsi sempre in obbligo verso il mondo, di non rendersi schiavo delle aspettative degli altri, di liberarsi dai pesi e dalle zavorre di obblighi morali e sensi di colpa. Gli direi di vivere e godere ogni istante che non tornerà mai più, di prendersi più cura di sé perché non siamo eterni. Gli direi che ho avuto un figlio a trentatre anni ma che avrei voluto averlo almeno dieci anni prima, per averne altri quattro dopo, ché sono la cosa più bella della vita. E poi gli direi di continuare così, ad essere leale verso gli altri ed a non perdere mai la fiducia. Gli direi di non cercare mai di trarre sicurezza dalla firma di un contratto ma dalle intenzioni di chi lo firma. Lui mi guarderebbe stupito e, forse…. vorrebbe essere un po’ come me! Manderebbe giù (sforzandosi, perché la cosa che trova più piacevole della birra, a quell’età, è il gesto: dare una lunga sorsata buttando indietro la testa ed alzando la bottiglia) un sorso di birra e dopo un breve silenzio mi direbbe: «Peccato che abiti così lontano perché, io, uno come te lo vorrei come amico per sempre.»
E sarebbe così che avremmo potuto passare la notte, senza quasi aver chiuso occhio, tranne giusto le ultime ore dell’alba, prima dell’attracco. La luce del sole spargerebbe sicuramente un po’ di cenere sulla brace di quel contatto tra anime, avuto nella notte e gli ultimi minuti di viaggio trascorrerebbero tra qualche frase scherzosa mentre ripieghiamo i sacchi e facciamo la fila per scendere a terra. Poi, sulla banchina, dopo avermi abbracciato in quel modo caldo ma imbarazzato che ha :«Spero che ci rivedremo presto. Se passi da Atene chiamami.» mi griderebbe mentre innesta la prima sul suo vespone, con quello schiocco tipico del modello di quegli anni, ma io saprei che non ci potremo rivedere mai più…perché l’indirizzo che gli avrei dato non esiste; perché in fondo io e il mio amico abitiamo da sempre negli stessi posti ma mai nello stesso momento.